Cosa significa lo stile italiano oggi?
In una recente conversazione, una persona molto intelligente ha spiegato (a me e alle altre persone sedute al tavolino di un bar) perché la filiera italiana non è la scelta migliore quando si tratta di produrre alcuni materiali come denim, pelle e jersey. Il motivo è che tutto ciò che viene prodotto in Italia ha immancabilmente una mano italiana: è cioè rifinito in ogni dettaglio, ha un effetto finale impeccabile, è lussuoso, o almeno questo è ciò che da sempre vendiamo al mondo (anche se il notizie recenti sul lavoro nero in quella stessa filiera raccontano un’altra storia, di cui avevo scritto Chi). Non sempre quell’effetto è quello che vuoi ottenere: se cerchi un tocco più ruvido, un risultato meno pulito e più “usato”, allora devi andare altrove. Si trattava ovviamente di una semplificazione, ha aggiunto chi di mestiere fa lo stilista, ma è comunque una constatazione che mi ha fatto riflettere, soprattutto guardando le collezioni sfilate durante questa edizione della moda maschile. Storicamente lo stile italiano è stato definito proprio da quelle caratteristiche di rifinitura, morbidezza, vestibilità: una concretezza frutto dell’artigianalità italiana che ha avuto tante declinazioni, ma che è rimasta una delle qualità essenziali della nostra moda. Le collezioni di questi giorni, pensavo, parlano ancora la lingua dell’ Quello Stile italiano, eppure è innegabile che qualcosa stia cambiando: su tutto aleggia infatti una certa decadenza, un’ironia a tratti malinconica che finisce per dare nuovi significati al “vestire bene” per cui siamo famosi in tutto il mondo. È un processo in atto ed è probabilmente legato al momento storico, sia quello ristretto del settore, che sta attraversando una crisi innegabile dopo la sbornia da shopping post-Covid, sia quello più ampio di instabilità geopolitica: tutto si ripercuote sulla “voglia” di moda nella nostra società. Abbiamo ancora voglia di moda?
Luca Magliano si è ispirato a Pinocchio, con una collezione che mantiene tutti i codici stilistici che lo hanno reso lo stilista che è: interessato alle persone che indossano gli abiti, ai loro corpi, alle loro vite e ai loro ricordi. Proprio l’archeologia dei ricordi d’infanzia si riflette nella stratificazione degli abiti e nella loro apparente confusione. Così come la memoria è spesso selettiva, confonde e riscrive il nostro passato, così nel “middlewear” di Magliano si invertono le destinazioni d’uso dei capi, le loro funzioni (o “disfunzioni”, come si legge nella nota ufficiale): il cappotto ha l’asciugamano integrato, i pantaloni diventano un costume da bagno, il nodo diventa un decoro, il grembiule diventa un abito da sera. Sulla spiaggia libera di Magliano ci si incontra, come nella vita, anche quando si fa lo stesso lavoro e persino in un ambiente in cui è comune farsi la guerra su Instagram: i maglioni ricamati Cormio/Magliano sono quindi il simbolo di «una ‘alleanza incondizionata tra colleghi’, qualcosa che ci libera, almeno per una sfilata, dall’enormità degli ego che affliggono questa industria. L’Italian style di Magliano non ha nulla a che vedere con l’idea turistica del nostro Paese (il dolcefarniente che spopola su TikTok), si muove nel solco del mito della moda italiana, e di quella portabilità di cui sopra, ma non può essere, nel 2024, una glorificazione di un jet-set qualsiasi. È invece frutto di un interesse, di una tensione, verso tutto ciò che storicamente è stato messo da parte, nascosto, dimenticato.
Anche Miuccia Prada e Raf Simons hanno voluto interessarsi alla sovrapposizione tra verità e finzione, reale e irreale: la collezione che ha sfilato presso la Fondazione Prada Deposito, su una passerella claustrofobica che si è aperta con una casa “rave” dai contorni fiabeschi, erano tutti semplici in apparenza, ma da vicino rivelavano dettagli distorti. Il filo che percorre colletti e orli conferisce ai capi un dinamismo irreale, irrigidendoli in posizioni innaturali, mentre le pieghe e le lavorazioni stropicciano, invecchiano, rivelano i segni del tempo: «l’imperfezione è un altro segno di vita, di realtà». Osservando i modelli susseguirsi velocemente, era impossibile non pensare a come si vestono alcuni ragazzi oggi, quando mescolano i loro vestiti “parsimonioso” con gli accessori del momento, quelli che possono permettersi ora che non ci sono più accessi al mondo dei brand del lusso: rubando dal guardaroba dei fratelli maggiori o dei genitori, questi ragazzini riutilizzano, riadattano, inventano.
Jonathan Anderson ha anche raccontato, parlando ai giornalisti, di come sia rimasto colpito osservando il modo in cui le persone si vestono oggi, soprattutto quelle più giovani: in un’epoca in cui la moda sembra “sempre meno radicale”, basta farsi un salto a un festival (Anderson era recentemente al Primavera Sound) per rendersi conto che c’è ancora voglia di sperimentare con la moda. «Quello che oggi i ragazzi fanno con i vestiti è incredibile. Quando ho iniziato, la mia moda maschile probabilmente sembrava controversa, ma penso che questa sia la percezione odierna [dei miei abiti, nda] essere molto più moderato”, nota con la lucidità che lo contraddistingue. Ecco perché Jonathan Anderson è il migliore della sua generazione: è qualcuno che sa cosa significa essere ossessionato da qualcosa (qualcuno che sogna di dormire, così scrive “Real Sleep” sui suoi maglioni), sa bilanciare i riferimenti più alti con quelli più bassi (non solo nel brand che porta il suo nome ma anche da Loewe, dove mescola collaborazioni artistiche e meme, ne abbiamo parlato nel scorso newsletter Industria) e non rinuncia mai a quell’elemento di leggerezza surrealista che è sempre una boccata d’aria fresca: i palloncini/festoni sgonfi attaccati al cappotto? Sì grazie. Un tocco che non è mancato a Franco Moschino, il cui marchio è ora disegnato da Adrian Appiolaza (con un passato da Loewe), alla sua seconda collezione come Direttore Creativo. Appiolaza ha un compito arduo, così come è difficile reinterpretare qualsiasi archivio: senza Moschino Virgil Abloh non sarebbe esistito e Appiolaza è rispettoso nel suo approccio, che filtra dal suo sguardo. Il suo Moschino è forse meno gioioso di quello di Franco, l’ironia esuberante, mai superficiale, è ora velata da una certa amarezza: però i tempi sono amari, e i direttori creativi hanno bisogno di tempo.
Sembra invece più a suo agio nel ruolo Sabato De Sarno da Gucci, che ha scelto di aprire le porte della Triennale di Milano per la sua sfilata. «Non mi piace la moda che spaventa, quella che allontana», ha detto ai giornalisti, «credo che la mia sia una moda accogliente, fatta di dettagli». La collezione, come già a gennaio, era fresca e capace di descrivere al meglio l’idea di Gucci del suo nuovo Direttore Creativo: le silhouette precise ma mai rigide, le lavorazioni impercettibili alla vista ma frutto di una meticolosa ricerca sui tessuti, espressione di un stile italiano contemporaneo dove anche la giacca doppiopetto diventa morbida e la sartorialità è al servizio di una mascolinità più aperta. Particolarmente azzeccata la campagna che ha anticipato la collezione, che ha visto come protagonisti i modelli Clément Chabernaud e George Barnett, volti indimenticabili per i Millennials amanti della moda. Massimo Giorgetti, di MSGM, ha festeggiato i quindici anni del suo brand con una collezione ispirata al Mediterraneo dove riferimenti nautici si uniscono a stampe e colori acidi come le bombe di vernice che, durante la sfilata, vengono lanciate su superfici bianche, in un’installazione a cura di Fabio Cherstich.
Da Jordanluca, invece, hanno guardato al mondo della danza classica, ma attraverso il loro filtro: il tutù e le ballerine, per uomini e donne, sono intrisi di ribellione black e punk, cercando di ribaltare anche la più classica delle discipline secondo a nuove prospettive. Jordan Bowen e Luca Marchetto sono molto utili alla moda milanese, e la speranza è che restino qui. Da Emporio Armani, invece, il tema era il ritorno alla natura e agli spazi aperti dei campi, che si riflettono nella palette cromatica e nella distensione delle linee, così come da Zegna, dove Alessandro Sartori ha scelto di sfilare in uno spazio industriale all’interno del quale era stato ricostruito un campo di piante di lino. Qui le linee classiche del menswear vestono uomini più maturi, come l’attore Mads Mikkelsen che ha chiuso la sfilata, un contrasto che ci è sembrato particolarmente evidente durante queste sfilate. È stato un omaggio a Marcello Mastroianni la collezione di Dolce&Gabbana, che è ritornata all’estetica degli anni Cinquanta, “l’età d’oro dell’Italia” come hanno scritto nel comunicato stampa. Ma se c’è qualcuno che ha saputo ricostruire il maschile è sicuramente Giorgio Armani, una delle poche sfilate in cui i modelli non erano solo ventenni ma uomini adulti. Giovinezza e maturità, ricordi infantili e angosce del presente, reale e irreale, corpi muscolosi e corpi efebici: questi pochi giorni della moda maschile si sono mossi su tante dicotomie, così come è la storia del maschile oggi. Una storia, però, a cui mancano molti capitoli, di cui speriamo di leggerne qualche parte prima o poi.
In apertura: Magliano Primavera Estate 2025. Foto per gentile concessione di Magliano.