Stile di vita

“Italia? Non è dipendente dalle droghe come quelle americane»-Seven

ANNO 1979. Corridoio di un ospedale romano. Nuvola di aspiranti medici in camice bianco al seguito del megaprofessore galattico. Si passano in rassegna i malati. In piedi e pomposo davanti a un’anziana sofferente, il primario suggerisce una cura. Iniziano i rituali gemiti di approvazione. Una mano si alza dal gruppo dei tirocinanti. Si sussurra un’obiezione: “In realtà il New England Journal of Medicine ha pubblicato uno studio, già otto anni fa, dichiarando inefficaci questi trattamenti”. Gelo tra le barelle. Momenti di tensione. Passiamo silenziosamente al paziente successivo. Double Track con Susan Levenstein, newyorkese, specialista in medicina interna della capitale e ricercatrice in malattie psicosomatiche. L’obiezione al suo primario era sua. E la sua scena è raccontata nel libro Doctor: An American Doctor in Rome, che è un ironico affresco di come una donna anglosassone abbia vissuto quarant’anni di professione medica in Italia tra grottesche inefficienze burocratiche e toccanti slanci umani. Un insolito occhio straniero (esterno?) che ha vissuto dall’interno della macchina sanitaria italiana. L’intervista si svolge a Roma, nel chiostro dell’ospedale di Trastevere dove Susan ha trovato rifugio dopo essere stata colpita dallo sguardo del primario a causa di una sua sconsiderata obiezione. Un colonnato duecentesco incornicia una struttura fatiscente. Ogni trenta minuti un dipendente ci passa davanti spingendo faticosamente un carretto con minuscole ruote sulla ghiaia. Chiedo a Susan perché, nonostante viva in Italia dal 1978, quando parla degli italiani scrive “loro”. Lei risponde: «Un immigrato che arriva da adulto negli Stati Uniti può diventare profondamente americano, ma nessuno che viene da fuori può diventare italiano. Sono un eterno straniero, anche se ho il passaporto italiano.”


Decidiamo di rimandare al termine del nostro incontro, le considerazioni del ministro dell’Interno Matteo Salvini sui muri trumpiani e sui blocchi navali. Non appena faccio notare che il libro è decisamente spietato nei confronti del nostro sistema sanitario, Susan si affretta a chiarire che non era sua intenzione apparire come una “signorina sapientone”, come molti di coloro che hanno letto la sua storia Affermazione è un atto d’amore verso l’Italia e gli italiani e che, ovviamente, anche i nostri medici si sono evoluti notevolmente da quando si cominciò a scriverne 35 anni fa. Spiega: «Cito un vasto aneddoto di avvenimenti pittoreschi perché li annotavo su un quaderno ogni volta che me ne capitava uno. Il fatto di scriverli mi ha calmato.”

Visite mancate, incuria, primari in ferie e reparti bloccati. Ci sono stati anche casi recenti?
«Un mio paziente è stato rimandato a casa nonostante avesse il bacino rotto in quattro punti e un altro a rischio infarto. È successo un paio di mesi fa. La sanità italiana ha tre problemi fondamentali”.

Quale?
“Mancanza di denaro. Una formazione del personale troppo teorica e troppo poco pratica…”.

In che senso?
«Studiamo più dai libri che dai pazienti. Quando sono arrivato qui ho incontrato uno specializzando del quarto anno che non aveva mai toccato un paziente.”

Nel frattempo le cose sono cambiate.
«Sì, ma è tutto ancora troppo teorico. E poi c’è un terzo problema. E qui sarò duro.”

Si accomodi.
“Non esiste il concetto di professionalità.”

Boom.
«Sto generalizzando, ovviamente, ed è pieno di medici fantastici. Ma se un medico va in vacanza e non risponde più al telefono, se un altro manda a casa un paziente palesemente malato di leucemia, solo perché non sa come curarlo… c’è un problema di professionalità. A cui si aggiungono le assunzioni fatte per scelta politica o clientelare, i piccoli e grandi episodi di corruzione. Ne ho visti di tutti i colori. Un medico ha perso addirittura il lavoro a causa degli errori commessi con uno dei miei pazienti.”

Storie. «C’era una vecchia suora inglese che impazzì letteralmente. Sussurrò: “Ottanta, tre, dieci”. I suoi colleghi mi hanno chiamato perché volevano darle una siringa di Valium e rimandarla sana e salva a Londra. C’era un’alta probabilità che si trattasse di meningoencefalite. L’ho mandata all’ospedale. Ma nessuno lì ha nemmeno pensato di fare una puntura lombare. Morì tre giorni dopo. A pochi chilometri di distanza, sempre a Roma, ma in un altro ospedale, un mio giovane paziente è stato sottoposto in dieci minuti ad una puntura lombare ed ha ottenuto una diagnosi immediata e cure adeguate.”

Morale. «Quando entri in un ospedale italiano tiri i dadi. Altro esempio: lo shock anafilattico in 5 casi su 6 viene trattato correttamente con la somministrazione di adrenalina. Ma c’è anche il caso del medico che non “crede” all’adrenalina e quindi prescrive solo cortisone.”

E’ un problema di aggiornamento? “No. Lo shock si cura con l’adrenalina da più di mezzo secolo. C’è un problema culturale: ogni medico sembra avere una verità su di sé. Sul modello dello stregone. Negli Stati Uniti, invece, i medici sono dei, spesso pieni di difetti umani, ma che pretendono di interpretare la stessa verità, anche se la “verità” può cambiare radicalmente con la pubblicazione di un nuovo articolo di ricerca.”

Negli Stati Uniti non è possibile entrare al pronto soccorso senza avere una carta di credito in mano. «Con Obamacare le cose sono un po’ cambiate. Ma non sarò certo io a difendere quell’abominevole disgrazia che è il sistema sanitario americano. In Italia la risorsa principale è l’accesso alle cure gratuite e universali.

In America l’accesso è un problema e i prezzi delle cure sono esorbitanti.” Mi può fare un esempio? «Nell’ultimo capitolo del libro cito alcune cifre. Due compresse per curare gli ossiuri, i vermi intestinali dei bambini, in Italia costano un paio di euro, negli Stati Uniti possono arrivare fino a 780 dollari.

Stai scherzando? “No. Ho letto di una signora in vacanza a New York, visitata da un medico in un albergo, alla quale è stato presentato un conto di quindicimila euro.”

In Dottora elogia lo stile di vita italiano come fonte di benessere. «L’Italia non ha una società tossicodipendente come gli Stati Uniti. Gli americani abusano di droghe molto pesanti, mangiano cibo spazzatura e hanno un livello di alcolismo molto elevato. Il paradiso della salute è dove i finanziamenti, gli ospedali e la formazione dei medici sono americani, e lo stile di vita e l’accesso alle cure sono italiani”.

Si passa dal chiostro duecentesco ad un portico cinquecentesco. Susan confessa di aver ridotto il numero dei suoi pazienti, anche per curare meglio la sua passione per il pianoforte. Scopro che il suo attuale marito è Alvin Curran, compositore americano: «Ma non suono mai i suoi pezzi. Frequento i classici. Bach, Beethoven, Mozart… Ho qualche difficoltà a trovare altri dilettanti con cui duettare. In Italia o giochi a livello professionistico oppure no”.

Quando iniziamo a parlare di come si è avvicinata alla professione medica, scopro che il percorso è stato piuttosto tortuoso. Raccontami di te, della tua infanzia. «Mio padre era un assistente sociale comunista, mia madre una psicologa. Ho vissuto per molti anni nei quartieri operai di Manhattan. Poi ci siamo trasferiti a Long Island. E lì è finito il divertimento.”

Perché? «Tutto in ordine. Tutte le case sono uguali. Tutto preparato al bancone. Vengo da una famiglia anticonformista. A scuola organizzavo anche proteste individuali.”

Università? «Harvard. Ho iniziato con la matematica, un grande amore, ho continuato con la filosofia e alla fine ho virato verso la psicologia.”

Con l’idea di fare l’analista? «Sono finito a lavorare in un ospedale psichiatrico. Conoscete il film Qualcuno volò sul nido del cuculo? Quello era l’ambiente. Pazienti con una degenza media di dodici anni, persone entrate depresse e uscite lobotomizzate. Con il mio capo abbiamo cercato di modernizzare i metodi di cura. Abbiamo creato delle unità terapeutiche che includevano anche i portatori. Tra l’altro ero fidanzata con un portiere, ma questa è un’altra storia. Alla fine il primario mi consigliò di studiare medicina. Ma siccome odiavo i medici, prima di partire mi regalai un Gran Giro d’Europa nel 1970. E lì mi innamorai dell’Italia.”

Quanto tempo resta? «Doveva essere una giornata sola per ascoltare il concerto di un amico alla Piccola Scala di Milano, per poi fermarsi ad Aix-en-Provence. Rimasi lì otto mesi: Firenze, Venezia, la selvaggia Sardegna, Roma… tornai a New York e cominciai a studiare molto.”

New York negli anni settanta. Studio 54, sesso, droga e rock ‘n roll. “Non c’è modo. Studio e ricerca, ricerca e studio. Tra l’altro facevo parte di un gruppo marxista-leninista che rifiutava l’uso di droghe, nonostante amassi la marijuana.”

Nel 1978 si trasferisce in Italia. «Un anno prima avevo sposato Andrea, un italiano. E sono stato io a insistere perché ci trasferissimo. Sarebbe rimasto volentieri a New York.”

Nei primi capitoli del libro si parla dell’impatto con la burocrazia italiana. «Un carosello pazzesco di documenti, carte e fotocopie, un continuo rimbalzo kafkiano da un ufficio all’altro. E nessuno che sapesse davvero cosa fosse necessario per autorizzare un medico americano. Inizialmente ero un medico disoccupato inoccupato. Poi sono arrivati ​​gli anni della ricerca e della formazione gratuita, i sotterfugi, le piccole umiliazioni… Alla fine sono riuscito ad aprire un mio studio medico: il primo mese, un paziente… il secondo, quattro.”

Quanti pazienti ha raggiunto alla fine? «Circa duemila l’anno».

Parliamo delle tante serie tv che hanno fatto conoscere agli italiani la sanità statunitense. Susan sostiene che il più veritiero resta ER. Domanda: che ne dici di Grey’s Anatomy? “Un idiota.” In strada c’è un cassonetto che sputa spazzatura. Chiudiamo con un giudizio su Roma.

L’ha visto evolversi negli ultimi quarant’anni. Come trovi Roma oggi? «Dicono tutti che Roma fa schifo. Mi sembra che la spazzatura e la corruzione esistessero anche prima dell’amministrazione Virginia Raggi. Ho visto Roma diventare una città meno provinciale e più cosmopolita.”

Cosmopolita? Gli episodi di razzismo e xenofobia sono all’ordine del giorno. «L’Italia si sveglierà presto da questo incubo. Trumpismo e bannonismo (Steve Bannon è stato uno degli strateghi della comunicazione di Trump, ndr) hanno aiutato tutti i Salvini del mondo a crescere. Ma gli italiani non sono né razzisti né violenti, a differenza degli americani.”

Sono americani? «Ebbene, il Paese è stato fondato sull’eliminazione fisica di chi c’era prima e sulla riduzione in schiavitù di intere popolazioni. Valutatela.”





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