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L’economia americana ha fondamentali deboli ed è appesa alla “grande finanza”

La narrazione ricorrente è che l’economia americana è in buona forma. Forse, rispetto ad una simile affermazione, vanno tenuti presenti due aspetti che servono anche a comprendere meglio la strategia “militare” americana. Il primo consiste in una posizione finanziaria netta negativa di circa 20mila miliardi di dollari alla fine del 2023. Ciò significa che gli Stati Uniti hanno molti più debiti esteri che crediti.

Il secondo dato negativo è il debito federale che oggi cresce di un trilione di dollari ogni cento giorni. In sintesi, se gli Usa fossero un’azienda si troverebbero in condizioni davvero critiche. Ma gli Stati Uniti no, e possono usare la persuasione militare per migliorare la propria salute. COME? Certamente creando aspettative di grande tensione e di grande conflitto internazionale che, alimentate nella finanza, diventano il carburante di una nuova ondata inflazionistica.

Minacciare costantemente la guerra significa scatenare un’inflazione che permette di ridurre il debito e rendere sostenibile quello che oggi è molto pesante per gli Stati Uniti. Inoltre, una ripresa dell’inflazione determinerebbe il mantenimento di tassi elevati da parte della Federal Reserve e della Banca Centrale Europea (BCE), rendendo la liquidità dei grandi fondi l’unica realmente disponibile e una condizione simile favorirebbe la corsa dei mercati azionari americani, che vivono di aspettative create e sostenute da grandi fondi.

I mercati azionari, infatti, non risentono delle tensioni geopolitiche, anzi. Anche in presenza di una situazione di crisi grave, la finanza fatica documentazione; è la dimostrazione di due fatti fondamentali. Il primo. I valori finanziari sono largamente indipendenti dalle condizioni dell’economia reale e, di fatto, si autogenerano puntando sulla formazione di continue bolle speculative: dopo la bolla bancaria, legata a tassi elevati, e la bolla energetica, dettata dalla inflazione, stiamo per assistere alla bolla indotta da tutto ciò che ha a che fare con l’ipotesi di un conflitto. Quindi c’è un’impennata dei titoli “militari” e tecnologici.

Il secondo fatto è legato alla certezza che i valori finanziari sono ormai “governati”, come detto, da un monopolio di pochissimi grandi fondi, capaci di evitare crolli significativi. Si è fatta strada l’idea molto pericolosa che il rischio scompare, anche di fronte alle guerre, perché c’è una gestione monopolistica della finanza. Questo è un concetto molto insidioso poiché i “gestori del rischio”, i grandi fondi, potrebbero decidere di tesaurizzare l’enorme documentazione raggiunto, mandando in rovina tutti quei soggetti che ormai hanno affidato alla finanza le proprie politiche sanitarie e previdenziali.

Naturalmente il potere monopolistico dei fondi viene costantemente confermato. Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, si è dichiarato fermamente contrario all’acquisizione del colosso dell’acciaio United States Steel da parte della giapponese Nippon Steel. Secondo lui sarebbe molto più opportuno fondere quest’ultima con Cleveland Cliffs, l’altra grande azienda siderurgica con sede in Ohio. Nazionalismo? Fino a un certo punto. Forse c’è di più. Entrambe le società hanno come azionisti principali i tre grandi fondi finanziari – BlackRock, Vanguard e State Street – i veri “Big three”, che da una tale fusione beneficerebbero, innanzitutto sul piano finanziario, della creazione di una condizione di monopolio di portata decisamente settore strategico.

Ma la prova della forza dei fondi si materializza anche quando i politici cercano di opporsi al loro strapotere. Il Dipartimento di Giustizia americano e i procuratori generali di 17 stati hanno avviato un procedimento antitrust contro Apple per violazione della concorrenza. L’effetto è stato una perdita del 3,7% delle azioni Apple. Pertanto, tutta la potenza di fuoco di una parte significativa dell’amministrazione americana ha generato un crollo molto limitato di un titolo, quello di Apple, che ha registrato un forte rialzo negli ultimi sei mesi. In pratica sono iniziate alcune vendite allo scoperto, di carattere speculativo, da parte soprattutto di grandi fondi che però, essendo azionisti di Apple, si sono guardati bene da non minacciare in alcun modo il valore dell’azienda di Cupertino. Per essere ancora più chiari, i fondi hanno colto l’occasione per effettuare una piccola speculazione, mantenendo salda la corsa finanziaria di Apple, per giunta in una giornata in cui l’indice di Wall Street continuava a macinare documentazione. Un’operazione casalinga che approfitta della politica e della sua evidente debolezza: “gli Stati Uniti contro Apple” è stato il pomposo titolo di molti giornali che forse non hanno colto sia l’inefficacia dell’azione politica sia la gestione speculativa delaffare. L’economia americana in questo momento ha fondamentali deboli e ha un bisogno vitale della grande finanza che certamente, a differenza dell’economia reale, non teme affatto l’inflazione, vera panacea per il debito americano e il monopolio dei super fondi.

Alessandro Volpi è professore ordinario di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di tematiche relative ai processi di trasformazione culturale ed economico tra Ottocento e Novecento

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